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Dott.ssa Emanuela Tesei


Nuove prospettive in psicologia del lavoro e delle organizzazioni: il caso del comportamento organizzativo


Marina Fiori

Psicologa del lavoro e delle organizzazioni e consulente RU, si è occupata di riorganizzare percorsi selettivi in grosse aziende di distribuzione e di progettazione di percorsi formativi, svolgendo attività di docenza in scuole di formazione. Dottorata presso la University of Illinois a Chicago, collabora con l’Università di Losanna per attività di ricerca sull’Intelligenza Emotiva.<moz_editor_bogus_node="true">

marina.fiori@unil.ch

L'obiettivo di questo mio contributo è di informare i lettori dei più recenti trend in psicologia del lavoro e delle organizzazioni rispetto a ciò che accade dall'altra parte dell'oceano, in particolare negli Stati Uniti. "Perchè proprio negli Stati Uniti?" potrebbe chiedersi qualcuno. Perché una gran quantità di pubblicazioni (forse la maggior parte) in ambito di psicologia del lavoro/management proviene proprio da lì, ragion per cui ritengo che il lettore italiano possa trarre qualche beneficio dall'avere delle anticipazioni su quelli che potrebbero essere i prossimi orientamenti nel nostro paese. Non che tutto quello che viene proposto negli USA sia utilizzabile e accettabile a priori anche in Italia. Tuttavia è proprio dal confronto con una cultura diversa dalla nostra che possono nascere spunti di riflessione sullo stato della psicologia del lavoro e delle organizzazioni in Italia, utili alla pratica professionale.

Parlando di somiglianze e differenze, una prima osservazione riguarda proprio la collocazione dello psicologo del lavoro come profilo professionale. In Italia quella dello psicologo in azienda è una professione introdotta da poco e per questo motivo ancora poco conosciuta. Benché il ruolo di psicologo del lavoro nella selezione del personale si stia facendo strada, altre attività di competenza psicologica rimangono ancora nell'ombra, o perché non direttamente ricollegate alla professione di psicologo o perché svolte da altri profili professionali.

Negli States la situazione è diversa. Lo psicologo del lavoro ha una visibilità professionale definita e riconosciuta. In ambito aziendale le mansioni coprono una varietà di funzioni più allargata rispetto al panorama italiano. Infatti, oltre all'attività di selezione e valutazione delle risorse umane, gli psicologi si occupano anche di monitorare o intervenire sul livello di soddisfazione dei dipendenti di un'azienda, di garantire uguali opportunità di carriera fra i dipendenti, di diagnosticare eventuali malfunzionamenti organizzativi suggerendo percorsi di miglioramento. Lo psicologo del lavoro è insomma la figura di riferimento per tutto ciò che riguarda la relazione fra dipendente e azienda: è in questo dominio che viene riconosciuta la competenza dello psicologo.

In ambito accademico la psicologia del lavoro fa generalmente parte del dipartimento di psicologia come divisone a sé stante, o risulta essere annessa alle Business School; in questo caso non figura come un dipartimento a parte ma è frequentemente inglobata come area management. In entrambi i casi è un ambito di ricerca ben supportato da finanziamenti, soprattutto privati, per l'interesse che le organizzazioni hanno a investire in progetti direttamente o indirettamente legati alla produttività dei dipendenti.

Da questo primo confronto, emergono alcune differenze sostanziali:

  1. La prima è che negli Stati Uniti lo psicologo del lavoro che lavora in azienda ha unospettro d'azione più allargato rispetto allo psicologo che lavora in Italia. Nonostante l'auspicio sia quello di muoversi nella stessa direzione anche nel nostro paese, bisogna riconoscere che ci sono ostacoli oggettivi al raggiungimento di questo obiettivo. Infatti, la possibilità di differenziare i profili professionali all'interno di un'azienda è direttamente proporzionale alla quantità di dipendenti che vi lavorano. In Italia la maggior parte delle aziende è di piccole medie/dimensioni, conseguentemente i profili professionali tendono più facilmente a sovrapporsi e ad essere in numero più limitato. Inoltre il mercato del lavoro americano, in termini di varietà di domanda e offerta, è ben diverso da quello italiano: ad esempio, le professioni "di nicchia" hanno molta più probabilità di avere successo in un paese dove le esigenze professionali sono così varie.
  2. La seconda è che lo psicologo del lavoro negli Stati Uniti ha un più chiaro riconoscimento professionale. Gli ingegneri fanno gli ingegneri, gli economisti fanno gli economisti e gli psicologi del lavoro fanno gli psicologi del lavoro, nelle diverse aree di loro competenza. A differenza del punto precedente, su questo aspetto credo che ci siano possibilità di intervenire per arrivare ad una maggiore valorizzazione di questa professione. Infatti, qui non si tratta di partire svantaggiati dal punto di vista delle caratteristiche del mercato del lavoro, ma piuttosto di far conoscere quali sono le potenzialità della professione in ambito aziendale.
  3. La terza è che negli USA la psicologia del lavoro ha risvolti manageriali diretti, cosa che invece in Italia non è così chiara e lampante. Ad esempio, il corpo docente dell'area Management & Organization delle più prestigiose School of Business americane è composto nella stragrande maggioranza da psicologi e sociologi. Il fatto che negli Stati Uniti l'ambito del management sia un dominio prettamente psicosociologico ci dice qualcosa sui meriti della psicologia del lavoro in ambito aziendale. Non farà male ricordare che Herbert Simonpremio Nobel in economia nel 1978 per il suo contributo allo studio del decision-making in azienda, era uno psicologo.

Il confronto fra la situazione del nostro paese e gli Stati Uniti offre interessanti spunti di riflessione. Se da un lato appare irrealistico pensare a differenziare gli ambiti di intervento dello psicologo nelle aziende italiane, dal momento che certi spazi professionali sono strutturalmente inesistenti, dall'altro è invece opportuno lavorare per fare in modo che per altri spazi, più ristretti, sia riconosciuto il valore specifico, culturale oltre che scientifico, del contributo che la psicologia del lavoro è in grado di offrire. Questo, a mio papere, potrebbe essere fatto sottolineando come la essa sia intrinsecamente legata agli aspetti di gestione del personale di un'azienda.

Organizational Behavior

Ed è proprio nell'ottica di dimostrare in che modo la psicologia del lavoro sia collegata alla gestione del personale che intendo parlare di comportamento organizzativo (Organizational Behavior, OB). Il comportamento organizzativo è stato definito come "lo studio di come i pensieri, le emozioni e i comportamenti degli individui e dei gruppi nelle organizzazioni sono influenzati dalla presenza effettiva, immaginaria o implicita di altri individui" (Thompson, Kern e Loyd, 2003). L'ambito di studio del comportamento organizzativo coinvolge diversi livelli di analisi dei processi che avvengono all'interno delle organizzazioni. Essi possono essere distinti in:

  • processi che avvengono a livello dell'individuo, come lo studio delle motivazioni o emozioni;
  • processi che si manifestano a livello interpersonale e di gruppo, come lo studio della comunicazione interpersonale;
  • processi che coinvolgono l'analisi di fattori organizzativi, quali ad esempio la cultura organizzativa.

Benché i diversi livelli di analisi siano concepibili all'interno di un continuum che va dall'individuo all'organizzazione, il dibattito attuale all'interno della disciplina vede fronteggiarsi due schieramenti concettualmente distinti: da un lato coloro che centrano l'attenzione sulle attitudini, emozioni, processi cognitivi e comportamentali degli individui e di piccoli gruppi all'interno dell'organizzazione; questa prospettiva è capitanata dagli psicologi e corrisponde alla cosiddetta prospettiva micro.

Dall'altro coloro che focalizzano l'attenzione sull'ambiente organizzativo fatto di sistemi, reti di comunicazioni fra organizzazioni e fra dipartimenti, cultura organizzativa. Questa ultima prospettiva è invece capitanata dai sociologi ed è indicata come prospettiva macro1.

Il resto dell'articolo si propone di illustrare l'ambito di ricerca del comportamento organizzativo attraverso alcune ricerche esemplificative dell'utilità di tale studio a livello organizzativo/manageriale. Gli esempi non pretendono di essere esaustivi, ma semplicemente di dare un'idea al lettore del contributo della psicologia del lavoro e delle organizzazioni alla vita aziendale. Come il lettore stesso potrà constatare, le ricerche citate sono rappresentative dell'orientamento psicologico o micro.

1 È interessante notare come questa suddivisione in micro/macro rispecchi una concezione della psicologia sociale fortemente centrata sul livello di spiegazione individuale dei comportamenti, rispetto ad una concezione più italiana/europea orientata ad un livello di analisi interpersonale, di gruppo e culturale. In effetti, per uno psicologo sociale europeo la distinzione micro/macro potrebbe apparire molto più sfumata, ma per lo psicologo sociale americano è invece molto marcata. Questa differenza di approccio dipende, probabilmente, dal ruolo che la social-cognition ha avuto sullo sviluppo della psicologia sociale americana.

Decision-making

Molte ricerche in questo ambito sono orientate a dimostrare come il modello dell'homo oeconomicus, cioè dell'individuo che prende decisioni e agisce secondo regole razionali di minimizzazione delle perdite e massimizzazione del profitto, sia ormai completamente obsoleto. Già Simon nel 1955 aveva messo in luce, con il modello della razionalità limitata, che le persone adottano scorciatoie, si accontentano di risultati tutt'altro che ottimali o semplicemente non agiscono sempre in maniera razionale. Egli sottolineava come lo scostamento dalla razionalità dipendesse da mancanza di tempo e/o di risorse. Più di recente si è fatta strada l'idea che gli individui continuano a fare errori valutativi anche in presenza di risorse temporali e cognitive. Ad esempio, Staw (1976) dimostra in diversi esempi come alcuni manager continuino a distribuire risorse in una direzione per la quale ottengono ripetuti effetti negativi. Questo risultato, che sfugge qualsiasi spiegazione basata sulla razionalità assoluta dell'homo oeconomicus, viene invece spiegata attraverso un progressivo incremento di impegno verso la scelta fatta, che si attiva quando gli individui si sentono direttamente responsabili delle conseguenze negative di un'azione. Kahneman, Knetsch e Thaler (1990) mettono in luce una discrepanza nel decision-making individuale: quando alle persone viene chiesto di attribuire il prezzo di un oggetto che essi possiedono, queste richiedono un prezzo più alto di quello che pagherebbero per acquistarlo da qualcun'altro. Gli Autori spiegano questo fenomeno evidenziando come il valore dei beni aumenti quando entrano a fare parte del proprio capitale: le perdite hanno un impatto più forte dei guadagni. Infatti, è stato più volte riscontrato che le persone sono più propense a prendere rischi quando pensano in termini di guadagni, rispetto a quando pensano in termini di perdite. Fra l'altro, questo stesso effetto è anche alla base della strategia di marketing per la quale ai clienti vengono dati prodotti gratuiti di prova.

Negoziazione

Gli studi sulla negoziazione si distinguono a seconda che coinvolgano aspetti distributivi o integrativi del guadagno. L'aspetto distributivo riguarda la decisione congiunta di come allocare le risorse. Ad esempio, il datore di lavoro e il candidato possono accordarsi su una via di mezzo, rispetto alle reciproche offerte, quando negoziano l'assunzione. Fra i fattori che influenzano la trattativa sono stati evidenziati la correttezza e il potere esercitato dalle parti. L'aspetto integrativo riguarda invece come le persone raggiungono un accordo in situazioni in cui entrambi possono trarne benefici. I risultati delle ricerche dimostrano che frequentemente le persone lasciano risorse inutilizzate sul tavolo della trattativa perché non si rendono conto dei benefici reciproci della trattazione. Morris, Larrick e Su (1999) dimostrano come i negoziatori facciano sistematici errori di attribuzione della controparte: negoziatori che hanno alternative interessanti vengono facilmente percepiti come non collaborativi. In questo caso i negoziatori sono preda dell'errore fondamentale di attribuzione perché chiamano in causa caratteristiche personologiche quando in realtà i comportamenti dell'altra parte sono l'effetto di fattori situazionali. Thompson, Gentner e Loewenstein (2000) analizzano strategie per insegnare alle persone come trasferire le competenze di negoziazione in diversi contesti. L'apprendimento attraverso singoli casi è difficilmente trasferito se ad esso non è affiancato un confronto analogico dei casi trattati; il confronto, infatti, consente l'estrapolazione di regole generali di contrattazione, che solo a quel punto diventano parte integrante delle competenze acquisite.

Gruppi e team

La letteratura riguardante i gruppi è molto vasta e copre diverse aree di ricerca, come ad esempio lo studio del problem-solving, del conflitto, o della creatività nei gruppi. Riguardo a quest'ultimo ambito, le ricerche suggeriscono che, contrariamente a quanto creduto, i gruppi non sono generalmente più creativi dei singoli individui. Ad esempio Paulus e Dzindolet (1993) analizzano le ragioni per cui i gruppi ottengono prestazioni peggiori in situazione dibrainstorming. Confrontando la prestazione del gruppo con la prestazione individuale dello stesso numero di persone analizzate singolarmente, essi arrivano alla conclusione che i gruppi non producono soluzioni migliori perché i membri si sentono in un certo senso sollevati dalla responsabilità di contribuire all'obiettivo di gruppo dal fatto che altri stanno "lavorando per loro" (fenomeno del cosiddetto social loafing). Un'altra spiegazione è quella relativa al blocco della produzione di idee dovuto al fatto che i membri del gruppo, anziché contribuire attivamente, sono distratti dal porre attenzione a ciò che gli altri propongono. Gigone e Hastie (1993) mettono in luce come i gruppi tendano sistematicamente a prendere decisioni basate su informazioni che tutti i membri possiedono, invece che a considerare informazioni di cui gli altri membri non sono a conoscenza. Distribuendo informazioni rilevanti per la decisione del gruppo, in maniera tale che alcuni dettagli siano conosciuti a tutti ed altri solo ad alcuni membri, essi osservano come la discussione e la relativa presa di decisione si basino quasi esclusivamente sull'analisi delle informazioni condivise già da prima della discussione. Come dire che la discussione non aggiunge niente di nuovo a ciò che tutti quanti già sapevano. Il problema nasce quando il compito è costruito in modo tale che una decisione migliore possa essere presa solo condividendo le informazioni. In questi casi, i gruppi finiscono per prendere decisioni peggiori perché non analizzano approfonditamente tutti gli aspetti di un problema.

Relazioni e fiducia

L'interdipendenza dei membri di un'organizzazione è un elemento fondamentale del comportamento organizzativo. Un modo per relazionarsi agli altri è attraverso il confronto sociale (Festinger, 1954). Tesser, Millar e Moore (1988) hanno proposto un modello basato sull'idea che le persone sono fondamentalmente preoccupate di come appaiono agli occhi degli altri e orientate a mantenere un'immagine di sé positiva (Self-Evaluation Maintenance model, SEM ). Quando una persona a noi vicina ha successo ci possono essere due reazioni: in un caso, per così dire, "brilliamo di luce riflessa", nell'altro risentiamo del confronto provando gelosia. Tesser e colleghi considerano quanto rilevante è il compito per la persona e quanto il legame fra due persone è stretto come due fattori che spiegano la reazione dell'una verso l'altra. I risultati evidenziano che, quando il compito non è rilevante e l'altra persona è vicina, il fatto di essere superati non genera gelosia, ma emozioni positive; quando invece il compito è rilevante, la persona tende a provare gelosia anche se l'altro è in un rapporto di vicinanza. Gli autori della ricerca si propongono di analizzare più a fondo come il legame affettivo possa moderare l'effetto. 
Un'altra ricerca analizza la conoscenza delle reti di relazioni come forma di potere nelle organizzazioni. In particolare Krackhardt (1990) sostiene che una percezione accurata della rete informale di relazioni fra i membri di un'organizzazione può essere considerata una forma di potere a sua volta, indipendentemente da altre fonti oggettive. Infatti, la conoscenza accurata della rete di relazioni (chi fa che cosa in azienda) risulta essere associata alla percezione positiva che i membri dell'organizzazione danno del soggetto che ha questa conoscenza. Una nuova forma di potere emerge dunque da questa ricerca: quello di coloro che basano la propria influenza sulla conoscenza del potere che gli altri esercitano in azienda.

Riferimenti bibliografici

Festinger, L. (1954). A theory of social comparison processes, Human Relations 7, 117-40.
Gigone, D. e Hastie, R. (1993). The common knowledge effect: information sharing and group judgment. Journal of Personality and Social Psychology, 65, 959-974.
Kahneman, D., Knetsch, J. L. e Thaler, R.H. (1990). Experimental tests of the endowement effect and the coase theorem. Journal of Political Economy, 98, 1325-1348.
Krackhardt, D. (1990). Assessing the political landscape: structure, cognition, and power in organizations.Administrative Science Quarterly, 35, 342-369.
Morris, M.W., Larrick, R.P. e Su, S.K. (1999). Misperceiving negotiation counterparts: when situationally determined bargaining behaviors are attributed to personality traits. Journal of Personality and Social Psychology, 77, 52-67.
Paulus, P.B. e Dzindolet, M.T. (1993). Social influence processes in group brainstorming. Journal of Personality and Social Psychology, 64, 575-586.
Staw, B.M. (1976). Dressing up like an organization: when psychological theories can explain organizational action. Journal of Management, 17, 805-819.
Tesser, T.R., Millar, M. e Moore, J. (1988). Some affective consequences of social comparison and reflection processes: the pain and the pleasure of being close. Journal of Personality and Social Psychology, 54, 49-61.
Thompson, L., Gentner, D. e Loewenstein, J. (2000). Avoiding missed opportunities in managerial life: analogical training more powerful than individual case training. Organizational Behavior and Human Decision Processes, 82, 60-75.
Thompson, L., Kern, M. e Loyd, D.L. (2003). Research methods of micro organizational behavior. In C. Sansone, C. Morf, and A. Panter (a cura di), Handbook of Methods in Social Psychology. Sage, Thousand Oaks, CA.

Dott.ssa Tesei Emanuela

Psicologa del Lavoro e delle Organizzazioni.

Esperta in Didattica e Psicopedagogia per i Disturbi Specifici di Apprendimento.

 

Riceve su appuntamento chiamando il numero 334.1578396 a Fermo e a Torre San Patrizio.

Svolge attività di diagnosi cognitiva legata ad attenzione, memoria ed apprendimento; diagnosi della sfera emotiva, demotivazione scolastica, ansia prestazionale, problemi relazionali.

Disturbi Specifici di Apprendimento, Dsa, Dislessia, Discalculia, Disortografia, Disgrafia.

 

Consulenza e Docenza in materia di Benessere psicofisico, gestione del Clima aziendale, comunicazione e stress lavoro correlato, gestione del gruppo di lavoro.

Tel: 334.1578396

 

Mail: emanuela.tes@libero.it

PEC: emanuela.tesei.142@psypec.it

 

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